In seguito all’invito del giornalista Massimo Gobessi per partecipare al programma “Sconfinamenti” di Radio Rai Friuli Venezia Giulia, il 19 dicembre scorso è andata in onda una puntata dove Alessandro Cuk ha parlato del suo libro “La città dolente – Il cinema del confine orientale”. Nel corso dell’intervista l’autore ha potuto così parlare della convergenza delle sue passioni, quella per il cinema (anche attraverso la collaborazione con il CINIT-Cineforum Italiano) e quella per i temi del confine orientale (grazie all’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia).
Questo in una materia ancora tutta da scoprire, non essendoci mai stata molta attenzione sul tema da parte dell’arte cinematografica, se si escludono i due unici esempi importanti: Cuori senza frontieredi Luigi Zampa e La città dolente, di Mario Bonnard, del 1949, al centro appunto del libro in oggetto, e più di recente il film Rosso Istria, sulle foibe. Si è fatta notare nel corso dell’intervista la differenza principale tra le due opere sopra citate, entrambe esponenti del cinema Neorealista Italiano: mentre La Città dolenteaveva il suo fulcro nell’esodo giuliano-dalmata, e vista la sua grande capacità anticipatoria, può essere considerato come un Docufilm, utilizzando un termine contemporaneo, Cuori senza frontiereera invece ambientato nel Carso dove una linea bianca aveva tracciato il nuovo confine. Incentrando l’analisi sul film La città dolente, assieme all’autore del saggio, ci si è soffermati sulla grande attenzione alla costruzione dei personaggi da parte degli sceneggiatori, tra i quali si annovera un giovane Federico Fellini. Sebbene la figura di Sergio sia centrale negli eventi narrati, si nota una contrapposizione tra il suo mondo e quello del proprietario dell’officina. Sergio rappresenta uno dei pochi personaggi a non andarsene durante l’esodo, bensì a scegliere di rimanere. Il dolore nascosto da decisioni comunque così sofferte da parte di pochi, è reso magistralmente nel film anche dal comparto sonoro (si può nella fattispecie sfruttare il mezzo radiofonico per concentrarvi l’attenzione, e far ascoltare un brano del film nel quale è presente il costante picchiare del martello sui chiodi).
L’intervistatore ha accompagnato tramite questa sequenza gli ascoltatori nel rendersi conto di quanto si tratti di un rumore che purtroppo molti esuli ricorderanno, essendo legato all’atto di chiudere le casse con i loro effetti personali, per portarle via, in luoghi lontani da quello di nascita. Dopo tanto tempo intercorso dalla sua uscita, il film riesce ancora oggi ad offrire un affresco credibile degli eventi, in qualche caso addirittura ad anticiparli. La critica dell’epoca accusò il film di non prendere posizioni nette, o di trattare certe questioni in modo troppo “soft”. In realtà, pur non nominando mai le foibe, e seppur evitando di sfruttare immagini di simboli o bandiere, il film rappresenta una descrizione realistica di quel mondo, e delle privazioni e soprusi che il popolo di Pola dovette subire. Il suo lamento può emergere anche dalle note di una musica cantata nel film, ispirata da uno degli slogan popolari dell’epoca: “L’altrui non vogliamo, il nostro non diamo”.
Silvia Anastasio